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giovedì 26 dicembre 2013

Un Erasmus del lavoro per salvare la generazione dei ventenni

Nessun Paese che intenda avere un futuro davanti a sé, può permettersi di abbandonare i giovani, ma se c'è un Paese al mondo che dovrebbe addirittura coccolare i propri ragazzi, questo è l'Italia: per la semplice ragione che, da noi, i giovani sono merce rara.

Negli anni Ottanta e, ancor più, negli anni Novanta sono nati pochissimi italiani, facendo segnare il record mondiale di infertilità: dal Duemila il trend si è un po' invertito, soprattutto grazie ai figli degli immigrati, tanto che oggi ci sono nove province italiane (Asti, Brescia, Cremona, Lodi, Mantova, Modena, Piacenza, Prato e Reggio Emilia) dove uno su quattro, tra i nuovi nati, è figlio di immigrati.

Ciò non è stato sufficiente, però, a cancellare quel ventennio di “buco” demografico, che sarà destinato a caratterizzare a lungo le sorti dell'Italia: i giovani nati in quegli anni, infatti, sono relativamente pochi, soltanto 10 milioni, in pratica la metà di quelli nati tra il 1955 e il 1975.

Il fatto paradossale, però, è che per quanto pochi siano, questi ragazzi risultano essere quelli che più hanno difficoltà a trovare un'occupazione: su di loro pesa, infatti, il “tappo” delle generazioni più numerose, destinate, soprattutto grazie alla Fornero, a restare al lavoro ancora per parecchi anni.

Per intenderci: un italiano nato nell'anno del baby boom (1964), rischia di dover lavorare fino a 67 anni, ovvero fino al 2031, ma il figlio di quel baby-boomer nato nell'anno di minimo demografico (1994) non potrà certo aspettare di aver compiuto i 37 anni, per avere finalmente un lavoro, magari precario.

Al contempo, quei “pochi” giovani tra vent'anni dovranno portare sulle proprie spalle il peso del pensionamento di chi è nato negli anni Sessanta: una faticaccia che richiederebbe, quantomeno, esperienze professionali precoci e di qualità, tali da permettere loro di raggiungere un discreto benessere economico.

E invece? Invece questi ventenni si stanno laureando, seguendo decine di corsi e sostenendo esamini che non permettono loro di approfondire nessuno specifico campo di studi: fuori li aspetta un autentico far west, dove se sono fortunati sommano tante piccole attività, per poi alla prima occasione vedersi sostituiti da qualche precario ancora più disperato di loro.

Che fare? Una seria riforma universitaria capace di rafforzare la capacità degli studenti di elaborare, già durante gli studi, idee vendibili sul mercato del lavoro, potrebbe ad esempio spingere una quota di diplomati a completare la propria formazione.

A tale riguardo: non sappiamo mai bene come spendere i fondi europei per la formazione? Si lanci, allora, un piano straordinario per far lavorare i giovani italiani all'estero, una sorta di Erasmus del lavoro, attraverso il quale le aziende europee possano offrire stage lavorativi ai ragazzi dai 25 anni in su.

C'è da scommetterci, saranno in molti quelli che torneranno da questa esperienza con una carica positiva e con conoscenze linguistiche e professionali meno approssimative: non è tutto, ma sempre meglio delle chiacchiere a sproposito del governo Letta.

domenica 1 dicembre 2013

Nonni in fuga, l'Italia non è nemmeno più un Paese per vecchi

Parafrasando il titolo di un famoso film dei fratelli Coen, è proprio il caso di dire che l'Italia non è nemmeno più un Paese per vecchi: dopo la fuga dei giovani talenti, infatti, stiamo assistendo ad un esodo, altrettanto preoccupante, dei pensionati che non ce la fanno più a vivere in una nazione in cui le spese sanitarie sono diventate ormai insostenibili, se paragonate alle pensioni mediamente percepite.

Basti pensare, al riguardo, che a prendere una pensione tra i 650 ed i 1.000 euro mensili sono più di 270mila anziani, tra i 1.100 e i 1.500 euro sono, invece, in 130mila: ecco allora che il fenomeno dei nonni in fuga sta assumendo dimensioni preoccupanti, con una crescita del 20% solo negli ultimi cinque anni.

Senza dover per forza allontanarsi dall'Europa continentale, ecco che vivere in località esotiche come, ad esempio, le Canarie si rivela certamente più economico ed a misura di portafoglio, dato che la maggior parte degli italiani che vi è finora emigrato risulta possedere una pensione non superiore ai mille euro mensili.

In tutto questo, la cosa più preoccupante è che l'Italia, nonostante le favole raccontate dal governo Letta, non sembra in grado di poter invertire questa tendenza, a causa soprattutto di un'assistenza pubblica che si sta rivelando inadeguata rispetto i tempi che stiamo vivendo, al punto che una famiglia su tre non può permettersi il 'lusso' di una badante.

E' vero, non sempre la qualità delle cure disponibili in alcuni Paesi esteri palesa livelli accettabili o, quantomeno, in linea con i migliori standard reperibili nella nostra penisola, tuttavia gli anziani lasciano lo stesso l'Italia anche perché il costo della vita nei luoghi di destinazione è comunque inferiore di circa un terzo che da noi.

Le mete al momento più gettonate sono quelle della Slovenia, Canarie, Cipro e Malta: alle Canarie, per fare un esempio, si sono già trasferiti circa 20mila nostri connazionali anziani, anche in considerazione del fatto che lì l'assistenza sanitaria di base è garantita da standard europei, mentre per una copertura totale è sufficiente sottoscrivere una polizza sanitaria privata per un costo mensile di 40-80 euro.

A questo punto, rimane da chiedersi una cosa: se i giovani se ne vanno perché manca lavoro, e gli anziani fanno altrettanto per trovare realtà a loro misura, alla fine chi rimarrà in questo sgangherato Paese?

sabato 12 ottobre 2013

Alitalia, storia di un fallimento infinito

Alitalia altro non è che uno dei tanti buchi neri italiani, come Telecom, come la Rai, all'interno dei quali, oramai da decenni, vengono risucchiati e spariscono i soldi dei contribuenti italiani.

Fin dai tempi in cui la compagnia di bandiera era in mano pubblica, abbiamo assistito inermi ad ogni genere di disastri gestionali: scorpori, cambi di management, ricapitalizzazioni, con l'unico ed inconfessato obiettivo di renderla più appetibile a quel gruppo di 'privati', legati a doppio filo con il Pdl e il Pdmenoelle.

Per garantire i guadagni ai loro 'amici' capitanati da Colaninno senior, gli stessi partiti delle odierne false intese si inventarono addirittura una bad company (dove sono confluite le perdite aziendali da far pagare ai cittadini), assicurando al contempo alla nuova Alitalia un monopolio triennale sulla rotta più remunerativa, la Milano-Roma.

Quegli stessi partiti, inoltre, trovarono pure delle banche compiacenti, disposte a buttar via un po' di soldi dei loro azionisti, pur d'imbarcarsi in un'avventura che, viste le premesse, altro non poteva che rivelarsi fallimentare.

Gli unici a non aver perso un centesimo, anzi, ad aver tratto profitto personale dalla combinazione tra marketing elettorale e politico, furono al tempo il Cavaliere a delinquere e l'ex ministro Corrado Passera.

Dall'altra parte gli sconfitti, come sempre accade in questo Paese, sono stati i cittadini italiani che hanno pagato un conto salato da più di cinque miliardi, bruciati sull'altare delle ambizioni personali di questi impresentabili personaggi.

Allora: perché non disfarci di Alitalia? Per alcuni, come Capitan Findus Letta e il suo valletto Lupi, la vendita significherebbe privarci di un 'asset strategico' (?) per il Paese, altri tirano in ballo addirittura (come già per Telecom) questioni legate alla sicurezza nazionale.

Come se vendere Alitalia possa, ad esempio, impedirci di disporre di velivoli per trasportare le nostre truppe a Shangai, in caso di guerra con la Cina.

Cosa significa, invece, 'asset strategico'? Per politici e sindacati, fino ad oggi, ha voluto dire mantenere in piedi un'azienda colabrodo in cui l'hanno sempre fatta da padroni, con il risultato di un fallimento infinito che è sotto gli occhi di tutti.

Il tentativo di 'privatizzazione' del 2008, del resto, dovrebbe aver insegnato anche ad un bambino che non ci si può improvvisare manager di una compagnia aerea, ci vogliono competenze professionali specifiche, non bastano le 'amicizie' politiche.

Invece no, il governo dell'Inciucio ci riprova: un bel versamento da parte di Poste Italiane di una quota iniziale di 75 milioni di euro, cui va aggiunto un centinaio di milioni per la quota di debito della compagnia a carico pubblico, su un totale di quasi un miliardo.

Vedremo tra qualche mese se l'operazione di resuscitare, per la seconda volta, il cadavere di Alitalia, non avrà invece contagiato anche l'azienda 'al servizio dei cittadini che rappresenta un motore di sviluppo per l'intero Paese', come recita la pubblicità di Poste Italiane.