Il campionato di calcio più bello
del mondo, si diceva una volta: ormai da un po' di tempo, invece,
anche questo prodotto italiano appare in netta crisi, con la
tradizione nostrana che paga dazio alle vecchie e nuove potenze
europee: Spagna, Germania, Olanda, con le loro nidiate di
campioncini, tutti campo, banchi di scuola, talento e disciplina.
I bilanci delle “grandi” sono
in perenne rosso, le stelle migrano verso altri lidi, nella ricca
Inghilterra, ad esempio, dove il pallone è un business che continua
a tirare, dove gli stadi sono dei veri e propri gioielli e gli
sceicchi fanno a gara per comprare i club più prestigiosi.
Qualcosa dovrà pur significare se
l'Italia, nonostante sporadici investitori americani o indonesiani,
invece degli sceicchi arabi sa attirare solo fetenti e criminali:
perché il pallone produce consenso, e la mafia lo sa, partite
truccate, sponsor fasulli, accordi in nero ed altri tantissimi
sistemi per riciclare denaro nel calcio, che le cosche conoscono
assai bene.
Eppure c'è ancora chi, anche di
fronte ad episodi intimidatori come quello accaduto ai danni dei
calciatori della Nocerina, costretti sotto minaccia di morte a
fingere improbabili infortuni di gioco, vorrebbe attribuirne la colpa esclusiva
al solito sparuto gruppetto di tifosi ultrà, notoriamente violenti ed
esagitati.
Ebbene, se qualcuno pensa che i
volti sudici del calcio italiano siano stati solo quelli di Moggi e
Giraudo, sia il benvenuto nel girone infernale del calcio di
periferia, quello degli stadi da due-tremila posti, dove gli arbitri
entrano ed escono dal terreno di gioco accucciati dentro auto della
Polizia, per difendersi dalle aggressioni di facinorosi e dirigenti
delle società.
Mi permetto, al riguardo, di
consigliare la lettura dell'illuminante libro di Daniele Poto, "Le Mafie nel pallone" (Edizioni Gruppo Abele, Torino), nel quale
l'autore ha preso in considerazione inchieste e atti giudiziari degli
ultimi anni, da cui risulterebbero essere più di trenta i clan
direttamente coinvolti, o contigui, nei casi di corruzione e
riciclaggio di denaro sporco nel mondo del pallone.
Alla spartizione della torta
parteciperebbero, infatti, le cosche e i boss più spietati: Lo
Piccolo e Santapaola in Sicilia, i Casalesi e i Misso in Campania, i
Pelle e i Pesce in Calabria, con l'infiltrazione mafiosa che non
sarebbe limitata alle regioni strettamente meridionali.
Il calcio professionistico, in
particolare nelle serie minori come la Lega Pro, è infatti preso di
mira anche in Lombardia, Lazio e Abruzzo, dove il riciclaggio di denaro
sporco avviene attraverso le compartecipazioni societarie e le
scommesse, sia quelle legali che il totonero.
Alla faccia della passione
popolare e delle speranze di migliaia di ragazzi che ancora crescono
sognando di diventare campioni da copertina: la commistione tra
calcio e criminalità non risparmia neppure i settori giovanili,
laddove più dei meriti contano le vicinanze alle cosche e le
raccomandazioni, giusto che le giovani promesse capiscano, fin da subito, che c'è qualcuno più uguale degli altri.
Lo spaccato che emerge dal libro
di Daniele Poto, racconta di una penetrazione mafiosa diffusa
soprattutto nelle realtà piccole e medie, anche perché controllare
una società calcistica assicura ai clan un certo prestigio e consenso che,
proiettati sul territorio, diventano utili al reclutamento di nuovi picciotti.
In proposito, alcuni collaboratori
di giustizia hanno raccontato del reclutamento operato dalla
'ndrangheta nella piana di Gioia Tauro, sotto forma di posti di lavoro
nei piccoli club calcistici: manovalanza a basso costo e con
un'ottima copertura: anche e soprattutto per questi motivi,
ogniqualvolta viene confiscato un campo di calcio alla criminalità,
“loro” cercano sempre complicità ai più alti livelli per
portarsi di nuovo il pallone a casa.