giovedì 30 gennaio 2014

In Italia pensioni minime da fame, se ne accorge pure l'Europa

Così recitava una battuta del grande Ettore Petrolini “Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri, che hanno poco, ma sono in tanti”, tant'è che in Italia le pensioni minime siano da fame, se ne accorge pure l'Europa, che ha altresì sottolineato come tale trattamento sia del tutto “inadeguato”, non garantendo affatto agli anziani lo stesso tenore di vita del resto della popolazione.

La cosa che salta immediatamente agli occhi, riguardo al tema delle pensioni minime, non è tanto (o non solo) l'ingiustificata sperequazione con gli assegni e i vitalizi milionari, bensì la sua palese iniquità in un Paese dove ogni anno vengono evasi qualcosa come 120 miliardi di euro.

Un Paese, il nostro, in cui il governo di Palle d'Acciaio Letta si rifiuta ostinatamente di introdurre qualsiasi forma di imposta patrimoniale (praticamente unico in tutta Europa) mentre, al contrario, si permette di regalare alle banche ben 7,5 miliardi di euro, sputando in faccia alle pensioni minime da fame.

La denuncia, questa volta, arriva dal Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d'Europa, che ha evidenziato come il governo italiano stia violando ben sette norme della Carta sociale europea: in un documento di cinquanta pagine, sono state prese in esame le politiche per la lotta alla povertà, all'esclusione sociale, per il diritto alla sicurezza sui posti di lavoro, nonché quelle relative all'accesso ai servizi sanitari e all'assistenza sociale.

Il documento, da poco reso noto, è riferito al periodo che va dal gennaio 2008 al 31 dicembre 2011, mentre la Carta sociale europea, una delle convenzioni internazionali alla base dell'attività del Consiglio d'Europa, è stata firmata a Torino nel 1961 e successivamente riveduta nel 1996.

Naturale complemento alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la Carta ha lo scopo di garantire l'applicazione dei diritti sociali in materia di casa, salute, istruzione, occupazione, libera circolazione, non discriminazione e tutela giuridica dei cittadini: in tale contesto, il Comitato per i diritti sociali è l'organismo paneuropeo, cui aderiscono 47 nazioni, cui è affidato il compito di verificare la compatibilità delle situazioni nazionali, con quanto enunciato nella Carta.

lunedì 27 gennaio 2014

Elena Loewenthal: “Contro il giorno della memoria”

Ci sono anche voci fuori dal coro, come quella della scrittrice italiana Elena Loewenthal, che hanno il coraggio di mettere in discussione l'idea stessa che la memoria serva ad evitare che le tragedie come quella della Shoah si possano ripetere nella storia umana “Se non accadrà più, sarà merito del caso” -afferma- invocando l'oblio come forza vitale, per dimenticare e andare avanti.

Le sue personali riflessioni sul tema sono raccolte in un libricino intitolato "Contro il giorno della memoria" (Add editore, 93 pg, 10 euro), in cui in modo poco rassicurante e del tutto not politically correct, la Loewenthal mette in discussione molte cose, incluso l'invito a non guardare con complessi reverenziali all'odierna retorica delle commemorazioni imposte per legge.

Per i pochi sopravvissuti allo sterminio ancor oggi viventi, per chi ha avuto familiari o parenti trucidati nei campi di concentramento, per gli ebrei venuti al mondo dopo di loro, questo ricordo imposto dalle istituzioni non è di certo consolatorio per la memoria: quei fatti, in qualche modo, continuano a riemergere nei loro peggiori incubi.

E' errato, dunque, pensare che la giornata della memoria venga celebrata per loro: le tragedie della persecuzione razziale, della deportazione e dello sterminio, appartengono alla storia europea, nella quale gli ebrei hanno solo avuto il ruolo di vittime, non quello di protagonisti, al punto che dovremmo essere noi europei a ricordarle come parte imprescindibile della nostra stessa identità collettiva.

Tra le righe del suo pamphlet, Elena Loewenthal ci chiede addirittura di dimenticare il giorno della memoria, in quanto da celebrazione introspettiva si è presto trasformato in qualcosa di ben diverso: ovvero in un atto di omaggio al popolo ebraico, come a dire che “visto che siete morti così in tanti, vi ricordiamo”, aspettandoci con ciò da quello stesso popolo una qualche forma di riconoscenza o, quantomeno, di riconoscimento di questo nostro omaggio.

Poiché nulla di tutto ciò arriva (e perché mai dovrebbe?), ecco che ci tocca assistere a squallidi episodi come quello accaduto a Roma, dove tre teste di maiale sono state recapitate alla sinagoga ebraica, all'Ambasciata d'Israele e al Museo capitolino che ospita la mostra dal titolo “I giovani ricordano la Shoah – dieci anni di memoria attraverso le opere degli alunni delle scuole italiane”.

Oltre a ciò, non mancheranno certamente coloro che dalle bacheche di Facebook, o nelle timeline di Twitter, se la prenderanno con Israele, accusandolo di aver dimenticato la lezione della Shoah, paragonando le sue politiche a quelle delle SS, e fioriranno infine i post con la lista degli stermini ignorati e delle tante barbarie occultate, che l'umanità  (purtroppo) non si fa mai mancare.

Tutto questo verrà scagliato come un'arma contro gli ebrei, trasformando il giorno della memoria in una ricorrenza per rimproverare, per scaricare sacchi di merda contro l'industria della Shoah e contro la facilità con cui gli ebrei riescano a far soldi manipolando abilmente i sensi di colpa.

Il giorno della memoria -afferma la Loewenthal- in questi casi innesca il peggio, meglio sarebbe non evocarla del tutto, se non altro per non scatenare quell'inferno d'insulti: lo stesso negazionismo, del resto, non è affatto scomparso con l'istituzione per legge del Giorno della Memoria, anzi, ha ottenuto da questa circostanza quasi una legittimazione di parola, che prima gli era negata.

Forse tra il ricordo imposto per legge e la dimenticanza per andare avanti invocata dalla Loewenthal, sarebbe opportuno prendere in considerazione una terza via possibile: l'elaborazione della storia che, pur rappresentando un processo lento ed incerto, appare come l'unica soluzione in grado di far breccia nella nostra coscienza collettiva.

lunedì 20 gennaio 2014

E' italiana la prima bicicletta ad energia solare

Si chiama Solingo, ed è la prima bicicletta tutta alimentata con energia solare, che non risente tra l'altro nemmeno delle limitazioni imposte dalle ZTL cittadine: il rifornimento di energia elettrica avviene, infatti, tramite un pannello fotovoltaico montato sul bauletto posteriore della bici che ricarica costantemente la batteria di scorta, in modo tale da non farci mai rimanere a secco.

L'innovativo velocipede può garantire, inoltre, un'autonomia di percorrenza fino a 115 Km su un percorso urbano, raggiungendo al contempo una velocità pari a 35 km/h, con un consumo complessivo di soli 50 cent, ogni 100 chilometri: approfitta, inoltre, degli incentivi statali e locali per i veicoli a basse emissioni complessive (nemmeno un grammo di CO2), richiedendo altresì di pochissima manutenzione.

Dotata di un doppio motore con funzione booster, la bicicletta ad energia solare è in grado di “arrampicarsi” anche su strade con pendenze fino al 15%: ciò nonostante il suo non certo leggiadro peso di 35 Kg, senza considerare le batterie, che sono tra l'altro disponibili in cinque configurazioni differenti, per meglio adattarsi alle differenti prestazioni richieste.

Per quanto riguarda il prezzo, è bene sapere che la versione base di Solingo parte dai 1.850 euro, fino ai 3.300 euro per il cityrunner ad energia solare di più elevate prestazioni: cosa importante da sottolineare, infine, è che si tratta di una bici italiana al 100%, prodotta in quel di Bologna dalla compagnia FIVE (Fabbrica Italiana Veicoli elettrici), secondo i canoni della completa eco-compatibilità.

lunedì 13 gennaio 2014

Energie rinnovabili, arriva la batteria di flusso low cost

Il fatto stesso che l'energia prodotta da sole e vento, una volta trasformata in gigawatt, possa essere immessa in rete sotto forma di energia elettrica, rende sempre più importante la ricerca di modi sempre più efficaci e convenienti, per poter immagazzinare queste fonti di energia rinnovabile.

Ciò in considerazione del fatto che i problemi legati allo stoccaggio dell'energia prodotta in modo discontinuo rappresentano, ancor oggi, uno dei punti deboli che impediscono alle rinnovabili di prendere decisamente il sopravvento.

Ora, a quanto pare, le cose potrebbero cambiare: come rivela Michael Aziz, scienziato presso la Harvard University di Cambridge, in Massachusetts, infatti, la soluzione risiede tutta in una rivoluzionaria batteria di flusso low cost, capace di immagazzinare ed erogare energia ad alta densità, senza il bisogno di ricorrere all'utilizzo di metalli costosi.

Nella ricerca, pubblicata sul portale scientifico Nature, viene descritto innanzitutto il grande vantaggio di queste batterie di flusso in termini di capacità di stoccaggio di energia su larga scala: fino ad oggi, le poche decine di batterie di flusso più avanzate si affidano tutte agli ioni di vanadio, come sarà anche per la più grande del mondo, che il Giappone avrà pronta per il 2015.

Ma il problema è che il vanadio è molto costoso, tanto che negli ultimi decenni i ricercatori hanno studiato molti altri elementi chimici da utilizzare e combinare per la raccolta delle energie rinnovabili, anche se pochi di questi si sono alla fine rivelati idonei allo scopo.

Anche per questi motivi, gli studi di Michael Aziz si sono concentrati sul mondo della chimica organica, fino alla scoperta di una sostanza capace di fornire delle prestazioni molto simili a quelle del vanadio, ad un costo nettamente inferiore: il chinone.

Una siffatta batteria di flusso, infatti, avrà la capacità di conservare un kilowattora di energia prodotta, al modico prezzo di 27 dollari, ovvero ad un terzo del costo richiesto dalla batteria di flusso al vanadio: ulteriori miglioramenti, inoltre, potrebbero renderla competitiva anche per immagazzinare grandi quantità di energia, come l'aria compressa.

In conclusione, pur necessitando l'invenzione di Michael Aziz di una definitiva messa a punto, quantomeno per avvicinarsi il più possibile alle prestazioni delle batterie di flusso al vanadio, è certamente possibile affermare che ha aperto la strada per una nuova generazione di accumulatori di energia sempre più efficienti.

venerdì 10 gennaio 2014

E' Hong Kong la capitale dei rifiuti tecnologici

Nel sud della grande nazione cinese, più precisamente nella provincia di Guangdong, si trova il grande centro di riciclaggio di Huaqing, dove circa tremila addetti lavorano incessantemente al riciclaggio degli scarti del materiale elettrico ed elettronico.

Nell'impianto di Huaqing, secondo soltanto a quello di Pechino, giacciono da anni in enormi magazzini vecchi televisori e schermi di computer, in attesa dell'ampliamento di questa struttura, con l'attivazione di uno specifico settore che si occupi di quel tipo di rifiuti.

Nonostante già a partire dal 2002 sia proibita per legge l'importazione dall'estero di rifiuti elettronici, non è certo per caso che a sole due ore di macchina, a sud dell'impianto di Huaqing, si trovi il grande porto dell'ex colonia britannica di Hong Kong.

Ogni giorno, attraverso le sue grandi banchine transitano decine di migliaia di container, ivi compresi quelli che trasportano illegalmente computer, televisori, telefoni cellulari ed ogni sorta di elettrodomestici che i paesi occidentali buttano via in quantità industriali.

Basti pensare, al riguardo che, nei soli Stati Uniti d'America, vengono mandati ogni giorno in discarica circa 150 mila computer: pur se la convenzione di Basilea vieta, da oltre vent'anni, l'esportazione di e-waste dai paesi ricchi a quelli in via di sviluppo, ancor oggi circa tre quarti dei rifiuti elettronici di Europa e America, viene caricato sulle navi e registrato come “rifiuti ferrosi”.

Nonostante l'operazione record del 2007, quando le autorità doganali di Hong Kong misero sotto sequestro 24 container illegalmente carichi di schermi TV e computer usati, per un totale di 200 tonnellate, occorre purtroppo prendere atto che la maggior parte di questi rifiuti sfugge ai controlli.

Anche perché, il più delle volte, questo genere di materiale elettronico viaggia mischiato con carichi del tutto legali, come le auto usate, per essere poi spedito in paesi in via di sviluppo, in primo luogo la Cina, oltre che in India e Africa occidentale.

giovedì 9 gennaio 2014

Crowdsourcing, il valore dell'intelligenza condivisa

Quando si è spinti dalla disperazione, si è costretti ad osare l'inosabile e, magari, decidere di andare contro le abitudini e financo le convinzioni di tutta una vita, tanto, giunti a quel punto, c'è poco o nulla da perdere: fu proprio questo che fece Rob McEwen, l'amministratore delegato dell'azienda canadese Goldcorp, quando i giacimenti minerari iniziarono a sfornare metallo giallo a singhiozzo.

Era la fine del 1999, quando McEwen decise di rivelare al mondo ciò che di più prezioso e segreto un'impresa mineraria possiede: persuaso del fatto che le migliori menti geologiche non sedessero negli uffici della società, bensì da qualche parte là fuori, il manager scelse di condividere con la rete nientemeno che i dati geologici relativi ai giacimenti d'oro di proprietà dell'azienda.

La speranza era che qualcuno, sulla base delle informazioni condivise, fosse in grado di aiutare la Goldcorp a trovare nuovi filoni di estrazione, in cambio di una cospicua ricompensa in denaro: la risposta della rete stupì lo stesso McEwen, visto che nel giro di poche settimane arrivarono suggerimenti relativi a 110 possibili nuovi siti, 50 dei quali mai presi fin ad allora in considerazione dai ricercatori della Goldcorp.

La cosa più strabiliante, fu che l'80 per cento delle aree proposte dagli utenti del web si rivelarono ricche d'oro per un valore superiore ai 3 miliardi di dollari: non solo, grazie al contributo dei geologi virtuali, l'azienda risparmiò un tempo di esplorazione stimato in due o tre anni di lavoro, cosa che aiutò la Goldcorp a diventare un autentico colosso del settore estrattivo.

Rob McEwen probabilmente non lo sapeva, ma il modello da lui adottato, di lì a qualche anno, sarebbe diventato famoso con il nome di crowdsourcing, neologismo che evoca il ricorso ad una sorta di intelligenza condivisa delle masse (crowd), attraverso il coinvolgimento dei navigatori nella ricerca di idee e soluzioni.

Dopo innumerevoli esempi, come quello classico e ancora insuperato di Wikipedia, ecco che in Italia, grazie a Grillo e Casaleggio ma, soprattutto, per merito dei cittadini portavoce del MoVimento 5 Stelle in Parlamento, il crowdsourcing ha ottenuto il proprio battesimo anche in un ambito da sempre considerato territorio esclusivo dei “professionisti” della politica, ovvero quello legislativo, con il portale "Proposte di legge parlamentari".

La via per la democrazia diretta è ormai irreversibilmente tracciata: mettere in comunicazione portavoce e cittadini, raccogliendo le energie e le esperienze dei singoli intorno a specifici provvedimenti di legge, c'è da scommetterci, non potrà che dare risultati eccellenti per tutti quanti, a partire da un rinnovato (e meno costoso) rapporto di fiducia nei confronti delle istituzioni.

lunedì 6 gennaio 2014

Dalla signora Benz all'auto di serie alimentata ad idrogeno

E' passato molto più di un secolo da quando Bertha, la moglie di Karl Benz, l'ingegnere tedesco a cui viene attribuito il merito di aver progettato la prima automobile, prese di nascosto la sua Motorwagen e partì, portando con sè i figli, per un viaggio di 200 chilometri: in realtà, la scappatella di Bertha rappresentò un riuscito escamotage per pubblicizzare la straordinaria invenzione del marito.

Quell'auto a tre ruote non superava i 15 chilometri orari, tanto che il viaggio della signora Benz e dei propri figli si protrasse per ben due giorni, ma la trovata funzionò, eccome: tanto che oggi, in tutto il mondo, si stima circolino un miliardo di automobili, la maggior parte delle quali funzionano, purtroppo, ancora grazie a un motore a combustione interna come quello di Benz.

Fino agli anni recenti, nei quali, grazie all'effetto combinato delle crisi petrolifere e di una sempre più diffusa coscienza ambientale, le maggiori case automobilistiche hanno deciso di investire in nuove tecnologie eco-compatibili: con la produzione di veicoli ibridi, il cui primo vero impulso risale ormai al 1997, anno dell'uscita della capostipite Toyota Prius.

Ed è la stessa casa automobilistica giapponese ad aver annunciato, proprio in questi giorni, di aver pronta per il 2015  la prima auto di serie alimentata ad idrogeno, che dovrebbe dare la spinta decisiva ad un vero e proprio cambiamento epocale: a Nagoya la chiamano Ultimate Eco Car, ovvero l'auto ecologica definitiva, sia perché avrà emissioni zero, sia perché la sua autonomia sarà libera da limitazioni, come avviene per le attuali auto elettriche.

La Ultimate Eco Car, infatti, l'energia la produce a bordo, facendo combinare l'idrogeno con l'ossigeno contenuto nell'aria, all'interno di una scatola detta stack, contenente vere e proprie pile capaci di trasformare l'energia chimica in energia elettrica, producendo solo acqua in forma di vapore e zero di anidride carbonica, o di qualsiasi altro agente inquinante come particolato, ossidi di azoto, monossido o idrocarburi incombusti.

Il tempo di rifornimento sarà di soli tre minuti e l'autonomia iniziale promessa è di 500 chilometri, ma la vera novità è che la Ultimate Eco Car, con i serbatoi di idrogeno pieni, può alimentare un'abitazione per un'intera settimana, tanto che, con l'avvento delle smart grid e del concetto di energia bidirezionale, potrebbero schiudersi orizzonti fin qui mai neppure immaginati.

Tutto pronto, allora? Manca solo un elemento fondamentale, ovvero una rete di distribuzione dell'idrogeno, la cui produzione ha bisogno di grandi quantità d'energia: in questo senso sarà necessario un grande sforzo, soprattutto da parte dei soggetti che producono e distribuiscono energia, ma anche dai vari governi nazionali, per portare avanti un progetto di mobilità ad emissioni zero, allo stesso tempo con costi abbordabili per tutti gli automobilisti.

sabato 4 gennaio 2014

Basterebbe imparare a lavorare gratis, per guadagnare bene

Fu nel 1902 che l'eclettico principe russo Pëtr Alekseevič Kropotkin, filosofo, geografo, zoologo, nonché teorico dell'anarco-comunismo ed esponente di rilievo del movimento anarchico, pubblicò il mutuo appoggio, un saggio nel quale egli sosteneva che il mutuo soccorso – presente in tutto il regno animale, salvo rarissime eccezioni – fosse l'arma migliore anche per la sopravvivenza umana.

A più d'un secolo di distanza, è oggi possibile rileggere con rinnovata meraviglia quel suo pensiero utopico, dal momento che il lavoro gratuito (non più appannaggio solo degli schiavi) rappresenta oggi sia la base su cui costruire le più rilevanti realizzazioni nel campo della conoscenza (Wikipedia), sia un'efficace leva per far emergere addirittura nuovi canali di business.

E' vero, in teoria nessuno dovrebbe lavorare gratis, eppure c'è gente che si lamenta del fatto che la possibilità di realizzare copie digitali del proprio lavoro, l'abbia di fatto reso ingiustamente gratuito: come i musicisti che protestano per il free share dei loro brani tra i consumatori, non rendendosi affatto conto che il modello economico gratuito si sta da tempo espandendo nel mondo a velocità impressionante.

A tale proposito Chris Anderson, giornalista e saggista statunitense, nonché guru della web economy, ha pubblicato nel 2009 un libro intitolato Free, in cui si parla di come il prezzo zero abbia contribuito a cambiare il mondo.

In un mercato altamente competitivo com'è la rete, il prezzo scende fino al costo marginale, avvicinandosi di molto allo zero, specialmente nei beni e servizi che hanno a che fare con la tecnologia: se il costo unitario di qualcosa si avvicina allo zero, chi lo produce farebbe pertanto meglio a trattarlo come zero, preoccupandosi semmai di vendere qualcos'altro.

Al riguardo, Chris Anderson ha individuato diversi modelli di economia del gratuito: il primo di essi è anche quello più noto, ovvero quello supportato dalla pubblicità, ormai alla base di tutti i media, sia tradizionali che hi-tech, seguito dalla cosiddetta “sovvenzione trasversale” (ad esempio regalare cellulari, per poi vendere il traffico).

Per arrivare al “Freemium”, neologismo che sta per Free e Premium: in questi termini, si regala sul web il 99% (la versione gratuita) del prodotto, per vendere poi l'1% (il servizio Premium), come fa, tra i tanti, Skype.

Infine, c'è l'”economia del dono”: non c'è infatti più nemmeno bisogno di pagare qualcuno, per scrivere online, adesso vien fatto gratis, poiché esistono altri incentivi, come la reputazione, l'espressione, l'attenzione, eccetera, ed è soprattutto per questi motivi che gente come me scrive dei post sul proprio blog.

La sempre maggiore abbondanza (di spazio sull'hard disk, di banda, d'informazione) sta generando, d'altro canto, altrettanta scarsezza (di tempo, di attenzione, di reputazione), tanto da produrre interessanti ripercussioni sul tutto il mondo del lavoro: perché, infatti, accettare lavori precari e sottopagati, quando basterebbe imparare a lavorare gratis, per guadagnare bene?